Vie di una vita: la personale toponomastica di Carlo Zavaritt, pediatra.

Vi proponiamo l’articolo dedicato al dott. Carlo Zavaritt che scrisse il reporter Mirco Roncoroni il 24 ottobre del 2016 in occasione della serata di beneficenza Who’s holding who organizzata dall’associazione Bergamo Danza in favore di Kinniya per la vita – ONLUS.

 

26 dicembre 2004.

Uno tsunami nell’oceano Indiano si abbatte sulle coste del sud-est asiatico arrivando a colpire le sponde dell’Africa Orientale. In Sri Lanka, il paese maggiormente colpito con l’Indonesia, si stimano 50.000 morti e 1.500.000 sfollati. Carlo Zavaritt, pediatra e neuropsichiatra infantile di Bergamo, si reca volontario sul posto attraverso la Protezione Civile, operando per tre settimane nell’ospedale da campo dell’Associazione Nazionale Alpini. Durante l’esperienza conosce Hassan Moulavi e il suo prezioso lavoro alla direzione dell’orfanotrofio di Kinniya (città del distretto di Trincomalee). Carlo e la moglie, Fanny Honegger, decidono così di costituire l’associazione Kinniya per la vita – ONLUS al fine di raccogliere fondi per la ricostruzione di ciò che è andato distrutto e per il sostentamento quotidiano dei bambini.

 

4 novembre 2016.

L’associazione Bergamo Danza organizza la performance di danza contemporanea Who’s holding who, “un omaggio all’infanzia nell’essere adulti”, a cura di Paolo Rudelli, con Alessia Vavassori e Paolo Rudelli, i cui ricavi saranno destinati all’associazione che tutt’oggi sostiene il progetto assistenziale ed educativo del nuovo orfanotrofio di Kinniya.

***

Nella topografia di Gorle, comune poco lontano da Bergamo, Viale Giulio Zavaritt è una lingua d’asfalto che disegna una grande bottiglia stilizzata. S’infila in un corridoio di alberi che ne tratteggiano i lati e che, in un pomeriggio d’autunno inoltrato, stendono a terra un fogliame umido e legnoso, una passatoia variopinta e odorosa che celebra la morte decorando i marciapiedi.

Giulio Zavaritt, il nonno adottivo di Carlo, è morto qui, a Gorle, nel 1962. Percorrendo il viale domando ai passanti se conoscano l’uomo che presta il nome a questa elegante zona residenziale, dalle ville a schiera serializzate, con tetti spioventi, vetrate a specchio e cancelli automatici in legno che aprono a vialetti lastricati che serpeggiano tra anfore ornamentali e gerani e SUV ormeggiati accanto a praticelli rifiniti da regolabarba. Fa molto sobborgo americano, con il muso duro dei cartelli AREA VIDEO SORVEGLIATA qua e là davanti agli ingressi. Più in giù un’area cani, le scuole, il santuario postmoderno della Madonna di Czestochowa e il grande parco all’interno della “bottiglia”, dove automi umanizzati trotterellano in tute sintetiche con cuffiette bianche alle orecchie, lo sguardo vuoto, il volto contratto dalla tensione agonistica. Passa un uomo dal fare sciupato, la disillusione per la vita stampata in volto e la patta dei pantaloni in caduta libera. Per lui Giulio Zavaritt era, manzonianamente, “un vecchio signorotto”.

“Non so bene chi sia”, dice invece una signora sulla cinquantina stretta in un poncho in lana color nocciola, “dai tempi dell’università ricordo fosse un dottore [si confonde con Carlo, NdA] ma nient’altro. So che erano davvero ricchi, e che possiedono ancora molto a Gorle”.

Capisco velocemente come questo sia un dettaglio piuttosto noto.

“Gli Zavaritt sono una famiglia che un tempo aveva tutto questo, come una specie di grande azienda agricola, erano proprietari terrieri e padroni del paese, praticamente. Ancora oggi qui in zona abita qualcuno di loro, hanno anche un castelletto, nel centro del paese”.

Il castelletto cui la gentile signora #2 si riferisce è “Villa Zavaritt”, un monumento nazionale che il sito del Comune di Gorle definisce “una delle pochissime ville cinquecentesche della Bergamasca”. Fu una residenza vescovile dal 1577 e rimase tale fino agli espropri napoleonici; venne poi acquistata nel primo Ottocento da Ambrogio Zavaritt, imprenditore tessile svizzero, protestante valdese e capostipite di quella che diventerà una delle più importanti famiglie svizzere del tessile trapiantatesi a Bergamo (altri furono i Frizzoni, gli Steiner, i Legler).

Carlo mi dirà che fu poi suo nonno Giulio, “il mio nonno” – quanta tenerezza può aggiungere un articolo – a ristrutturare la dimora internamente e “senza toccare nulla fuori”, negli anni della grande guerra.

Ma chi fu dunque Giulio Zavaritt?

BGpedia ne traccia un profilo dai contorni agiografici, ricordando che fu tra i fondatori del Consorzio Agrario di Bergamo, poi multi presidente e multi consigliere. Si legge del suo essere proprietario terriero progressista e attento ai bisogni dei mezzadri, sindaco di Gorle prima e dopo il fascismo (con cui “evitò ogni compromissione”) e che “visse sobriamente ed ebbe animo filantropico […] compiendo per tutta la vita gesti scorrevoli in umiltà e nel più discreto silenzio”.

Al nonno è intitolato anche l’istituto casa di riposo “Caprotti – Zavaritt, Residenza Sanitaria Assistenziale – Centro Diurno Integrato” di Gorle, una struttura che Carlo ha presieduto fino a pochi anni fa, di proprietà della Tavola Valdese. “È nata nei primi anni Ottanta” mi dice, “un tempo era una specie di collegio per ragazze orfane o in situazioni familiari problematiche, lo gestiva mia zia; poi non ce l’ha più fatta e l’ha regalato alla Chiesa valdese di Bergamo”.

Alla casa di riposo ci ho passato un pomeriggio piovoso. Nell’attesa di parlare con i due ospiti indicatimi come gli unici conoscenti di Carlo – Salvatore, pastore valdese, e Fernanda, amica d’infanzia – ascolto le note di Raoul Casadei riecheggiare nel corridoio che conduce alla sala da pranzo. Lì un simpatico piano-bar-man intona “Evviva la Romagna! Evviva il Sangiovese!” con un entusiasmo tanto fuori luogo quanto necessario, mentre il giardino si fa scuro fuori dalla finestra.

I due ospiti mi parlano di Carlo. Salvatore racconta del loro primo incontro, in Chiesa, era più o meno il 1952, erano entrambi ragazzini. Dice che “a Carlo è sempre piaciuto giocare a fare il non credente”, che in lui ha sempre trovato una persona aperta e presente, soprattutto è stato capace di “pronunciare le parole giuste quando andavano dette”.

Fernanda invece è nata nel 1948 dentro uno stabilimento di bottoni. Ha lavorato prima come insegnante di educazione tecnica, poi alle Poste. Confessa di aver sempre nutrito, prima del matrimonio, una certa attrazione nei confronti di Carlo. Poi “solo” una grande amicizia, le vacanze insieme nella casa in montagna di lui, a Celerina, in Svizzera, e un rapporto cementato dopo la malattia della figlia, che Carlo “ha salvato”.

Lo studio Zavaritt è al primo piano del civico 22A di via Giorgio e Guido Paglia, arteria nel centro di Bergamo, covile di studi medici e legali e parcheggi da 1,40€ all’ora.

Qui lo ascolto parlare dell’esperienza in Sri Lanka, indica un poster con dei bambini Tamil sorridenti e vestiti di bianco, dei disegni colorati appesi al muro fatti per lui da alcuni piccoli pazienti bergamaschi.

Mi racconta di essere nato a Milano, il 23 febbraio 1940, da una madre che “non aveva nessuna voglia di avere un figlio” e che durante la notte lo chiudeva in cantina. “Ricordo che mi prendeva, mi portava giù dalle scale e mi metteva lì a dormire, e non è che mi piacesse molto. Io urlavo come un pazzo, sempre. Sentivo i topi e mille altri rumori. L’unico momento in cui tiravo un sospiro di sollievo era quando sentivo il ritmo del treno della Nord che da Milano andava in su: tu-tum tu-tum, tu-tum tu-tum. E lì mi addormentavo”.

Succede poi che i vicini si accorgono di “’sto pistola che urla come un matto tutte le notti”, e compiuti i tre anni di vita arrivano i servizi sociali; tra loro c’è una donna, di una tal “famiglia Zavaritt”, che gestisce una casa d’accoglienza per ragazze da qualche parte in provincia di Bergamo. Carlo viene adottato, portato a Bergamo dalla zia e consegnato alla sua nuova madre, nella sua nuova casa, “Villa Zavaritt”, a Gorle. Del suo vecchio cognome, “Rossi”, non resterà traccia.

“Io ho un profondo senso di riconoscimento nei confronti di mia madre adottiva, l’ho sempre chiamata madre ovviamente. Mi ricordo bene il momento in cui mi ha messo nel mio nuovo lettino, quando mi ha lasciato giù ho fatto un sorrisone largo così, finalmente mi sentivo bene. Questa è la cosa più vera, la più grossa che abbia provato”.

ARRIVEDERCI CARLO